mercoledì 13 luglio 2011

Roma

A volte, ripulendo il disco fisso del computer, si trovano cose di cui ci si era dimenticati:



Intanto questo è il periodo dell’anno in cui Roma mi piace di più, perché c’è poca gente (lo so è un controsenso, ma le città sono più belle quando buona parte dei cittadini è da qualche altra parte), e perché c’è il sole (di solito). Il sole di Roma ad agosto non è un sole qualunque, è il sole della mia infanzia, anche se raramente passavamo l’agosto in città. È il sole dei film degli anni ’50 e ’60, quelli con quel bianco e nero così netto e contrastato, quelli che una volta guardavo in televisione (c’erano solo il 1° e il 2° canale, ossia Rai1 e Rai2).
Roma è una città che ha mille facce, da sempre si dice che è una puttana. A me piace per i suoi muri, quelli sbrecciati, macchiati, scolpiti e colorati dai graffiti e dal tempo. Per le sue rovine, quelle che trovi per le strade e che non hanno nessun cartello, nessuna dicitura. Per le sue pietre, che siano di millenni o di pochi giorni.
Roma mi piace nei suoi angoli meno conosciuti, nelle sue piazze del centro, piccole e inaspettate, che hanno sempre qualcosa che attira la tua attenzione, fosse un’edicola sacra, una fontana, un portone. E dentro ai portoni, se stai un po’ lì, aspettando qualcuno che entri o esca, cortili, giardini, statue. Roma è piena di statue. Non importa che siano belle o brutte. Sono come angeli che dormono. E ti aspetti che magari una notte, mentre stai passeggiando, si animino. Magari solo per andare a farsi un goccetto in una di quelle vinerie che ormai non esistono più.
Roma non è un luogo topografico, è un luogo dell’anima. Puoi percorrere le stesse strade all’infinito, saranno sempre diverse. Puoi scomporla e ricostruirla come vuoi tu. Ognuno può avere la sua Roma. È per questo che la amo.


Continua il viaggio per Roma…
Il primo è un luogo recente. È un balcone, di un caseggiato sterminato per larghezza e altezza, all’ottavo piano. Non era un balcone particolarmente bello, era largo appena una cinquantina di centimetri e lungo poco più della finestra che vi si affacciava. Un balconcino di inizio secolo.
Ho abitato un anno nell’appartamento del balcone.
Durante tutto il giorno e per buona parte dell’anno in effetti non era che un’inutile appendice dell’appartamento che era difficile utilizzare anche per stenderci i panni.
Poi c’erano i tramonti d’estate, e quella era un’altra cosa. Perché tramontando il sole andava a nascondersi giusto giusto dietro la facciata della basilica di S. Giovanni in Laterano.
Ho ancora negli occhi i colori del cielo che fiammeggiavano dietro alla mole integralmente nera, in pieno controluce, della facciata, le statue dei profeti come silhouette imponenti.
Tornavo a casa apposta per sedermi sul balcone, il piccolo balcone del mio piccolo appartamento.
Il secondo è un luogo della mia infanzia. Anche qui c’è una finestra e un appartamento, una finestra che dà su una piazza e un appartamento grosso come una reggia, almeno per me che ero alto come un tavolino.
La piazza era (ed è) piazza S. Francesco d’Assisi, con annessa chiesa di S. Francesco a Ripa, e non mi sono mai spiegato perché ‘sti Franceschi erano due e coabitavano nella stessa piazza.
Il palazzo è quello grande e verniciato di giallino, quello a sinistra se guardi la facciata della chiesa.
Ci abitavano zio Lorenzo e zia Maria, che non erano zii però io li ho sempre chiamati così.
Quando ero piccolo andavamo spesso a casa loro. Mi ricordo un salone enorme con il soffitto affrescato, col pianoforte che suonava mio zio. E le stanze grandi e spesso buie per le persiane socchiuse nonostante l’estate (perché chissà come mi ricordo che quando andavo in quella casa era sempre estate) in cui passavo ore intento a far finta di giocare, e invece spiavo quel luogo misterioso. Poi c’era la cucina, grande come un appartamento, con i tavoli e i lavandini di marmo grigio, e i coperchi e le pentole di rame attaccati alle pareti, e il terrazzino che dava sul cortile interno che ricordo pieno di piante. E sempre il sole netto e caldo d’agosto.
Come quella volta, ma doveva essere in primavera, quando lessi un libro sano seduto in poltrona davanti alla finestra, quella al primo piano, la seconda da sinistra. E il sole mi picchiava sulla testa, ma a me piaceva e non mi spostavo, e già la sera e tutto il giorno appresso mi salì la febbre e ho dimenticato il libro che stavo leggendo, ma non ho dimenticato la polvere che navigava nella luce della finestra, né la sensazione di calore.
E quando penso ad una storia, a varie storie, ambientate a Roma, sono sempre in quella casa, dietro quella finestra, in quella piazza.


Tre anni fa, era l’inizio dell’estate, decisi di svegliarmi molto presto la mattina. Lo feci sistematicamente per un mese intero.
Mi preparavo la colazione ed andavo sul terrazzino di casa, portavo con me una vecchia guida di Roma e un quaderno che mi piaceva molto.
Mentre mangiavo leggevo e annotavo i luoghi di Roma che non conoscevo, che conoscevo poco, che mi sarebbe piaciuto rivisitare. Era bello stare fuori a quell’ora, quando il traffico non è ancora caotico, il sole è ancora basso sull’orizzonte e c’è ancora il fresco della notte.
Annotavo con diligenza chiese, palazzi, monumenti.
Li annotavo perché volevo andarci con papà.
Volevo portarlo con me in giro per Roma, per la nostra città, volevo che fosse un regalo.
Stava già male, ma era un momento in cui era come guarito, ed io volevo stare da solo con lui. E scrivevo, annotavo, pregustavo.
L’estate è passata, non mi sono più svegliato presto, sul terrazzino era freddo, e il sole sorgeva sempre più tardi.
A dicembre papà si è aggravato. È morto il 25 di marzo, un sabato. Io ho pregato di non esserci nel momento in cui sarebbe spirato, avevo già visto, non volevo vedere papà morire. Sono arrivato in ospedale cinque minuti dopo.
Non sono mai andato a vedere Roma con papà.

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